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Nel tempo della globalizzazione calcistica, l’Italia resta sorprendentemente provinciale. Non per cultura o storia, ma per una resistenza silenziosa e radicata: quella dei suoi calciatori a varcare i confini. A sottolinearlo è la redazione di Sportmediaset. Nell’ultima lista stilata da Luciano Spalletti, appena 3 su 24 giocatori convocati militano all’estero: Donnarumma, Udogie e Tonali. Una percentuale ferma al 12,5%, che diventa ancor più emblematica se confrontata con le altre grandi d’Europa: Francia 67,8%, Spagna 29,6%, Germania 16,6%, Inghilterra 23% — quest’ultima notoriamente poco incline all’espatrio.

Eppure, in un calcio sempre più interconnesso e competitivo, restare nel proprio campionato non è sempre sinonimo di forza. Anzi, spesso è il contrario: un limite strutturale, una zona di comfort che finisce per soffocare le ambizioni e la crescita individuale.

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I numeri che confermano il ritardo dell’Italia

Non è solo questione di convocazioni. È la fotografia di un sistema. Secondo il report “Football Expatriates 2020–2025” del CIES di Neuchâtel, negli ultimi cinque anni 373 calciatori italiani hanno cercato fortuna all’estero. Nello stesso periodo, i francesi sono stati 2080, gli inglesi 1323, i tedeschi 995, gli spagnoli 839.

In termini assoluti, gli italiani all’estero censiti nel 2024 erano 158, molti dei quali in campionati marginali come Slovenia e Malta, che da soli contano 14 presenze azzurre. Per rendere l’idea: i calciatori francesi all’estero sono 1189, di cui 93 in Italia. Gli spagnoli sono 514, 45 dei quali giocano nei nostri campionati.

Un paradosso che si ripete ogni stagione: l’Italia accoglie, ma non esporta.

Un’eredità culturale che pesa ancora

Un tempo, andare all’estero era una scelta obbligata solo per chi non trovava spazio in Serie A. Era visto come un segno di decadenza professionale. Ma oggi, in un contesto in cui i top player passano con disinvoltura da Premier a Liga, da Bundesliga a Serie A, questa lettura appare superata.

Il problema è che in Italia la mentalità non è cambiata. Gli ingaggi sono ancora competitivi, la vita nel Bel Paese è confortevole, il calcio italiano — pur nelle sue crisi — resta una calamita. Ma è proprio questo status quo che rischia di ingabbiare un’intera generazione.

Molti giovani, chiusi dalla concorrenza straniera nei club di Serie A, preferiscono scendere di categoria piuttosto che misurarsi con il calcio europeo. Così facendo, però, rinunciano a un salto di qualità potenzialmente decisivo anche per la Nazionale.

Italia: qualcosa si muove, ma serve più coraggio

Gli esempi virtuosi non mancano. Guglielmo Vicario ha brillato in Premier League con il Tottenham, Tonali si è imposto in Inghilterra prima della squalifica, Calafiori è pronto per un’esperienza fuori dai confini. Ma sono eccezioni, non la regola.

All’estero abbondano storie come quella di Deniz Undav, attaccante tedesco esploso in Belgio prima di guadagnarsi la chiamata della Nazionale. Percorsi coraggiosi che partono da leghe minori per tornare al vertice. Perché non potrebbe accadere anche a tanti italiani?

L’Europa è un’occasione, non una minaccia

Nel calcio moderno, restare fermi equivale a perdere terreno. E mentre la Serie A si riempie di stranieri, la base di italiani di alto livello si restringe, rendendo il compito del CT sempre più complicato. L’unica soluzione, oggi, è riaprire il ventaglio delle esperienze, puntando su una maggiore esposizione internazionale dei nostri talenti.

Esportare calciatori non significa solo ampliare il bacino della Nazionale. Significa crescere, contaminarsi, imparare. L’Italia ha una storia calcistica enorme, ma se vuole tornare a essere protagonista — anche fuori dai propri confini — deve smontare quel provincialismo silenzioso che ancora trattiene i suoi giocatori dentro i confini del comfort.

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