Antonio Conte è al centro di un grande dibattito sul suo futuro al Napoli dopo aver portato la squadra alla conquista dello scudetto. A esprimersi sulla situazione è Ottavio Bianchi, storico allenatore degli azzurri, che con la sua esperienza offre un punto di vista prezioso e sincero sul momento delicato che vive il club partenopeo e sul possibile addio o rinnovo di Conte. Ecco cosa ha detto Bianchi in un’intervista esclusiva al “Il Mattino”.

Bianchi, Conte potrebbe lasciare il Napoli?
«Se lo fa, avrà le sue ragioni. Ma non credo che succederà. In una società ci sono equilibri delicati, che fan presto a diventare squilibri. Io ero vaccinato perché lì ci ho giocato e sapevo anche come si doveva giocare fuori dal campo. Lui è stato perfetto, in ogni aspetto. Sennò non avrebbe vinto. In una città come Napoli c’è chi parla a favore e chi tira contro, si intrufola per avere i propri interessi. Lui mi sembra, ma lo dico da spettatore, abbia gestito tutto alla perfezione».

Lei dopo lo scudetto ha mai pensato di andar via?
«Mai. Perché sarei dovuto andare via? Non mi hanno mai pesato le contestazioni della stampa o chi mi accusava di essere freddo con i tifosi. C’era un progetto e un presidente che si fidava di me. Ho lasciato quando gli amici e gli amici degli amici hanno iniziato a spettegolare, a intromettersi nelle decisioni dei dirigenti, a fare il lavaggio del cervello a chi comandava. Lì ho capito che era meglio andare via. E non ho mai cambiato idea».

Con Conte sembra un’altra storia.
«Anche a me pare tutto differente. Vuole garanzie? Certo, può permetterselo. Lui è un’azienda, ha ragione a preoccuparsi per prima cosa di se stesso. Vincere un altro scudetto a Napoli non sarebbe un miracolo, però. Lo fu la nostra impresa nel 1987».

Però lei aveva Maradona.
«La sua magia è ancora contagiosa, ogni volta che vengo a Napoli tante cose parlano di lui, si avverte sempre qualcosa di magnetico. Giusto anche avergli dedicato lo stadio. Nessuno è stato come lui, in campo e fuori».

In fondo, non ha mai avuto grossi problemi di gestione.
«Lo dicevano gli altri. Tra me e Diego era tutto chiaro. Come tra Diego e i suoi compagni. Nel calcio il problema non è gestire uno come Maradona, ma eventualmente uno che si crede essere come Maradona».

Che merito riconosce a Conte?
«C’erano sulla carta squadre più forti del Napoli. Ma lui ha tenuto nascosti gli azzurri, al coperto. Per poi uscire fuori all’ultimo istante, colpire e vincere. Da lontano, nel vederlo parlare, devo dire che mi somiglia: quando si è chiari e onesti, i giocatori ti credono, ti seguono, danno la vita per te».

Per voi, però, nessun bus scoperto.
«Ho visto le due ali di folla. Ma anche la nostra festa, molto più spontanea, non ha avuto nulla di meno. E in tanti la ricordano, sicuramente. Io in campo non ho festeggiato, e dopo la gara con la Fiorentina ero in albergo con il direttore Marino e altri tre amici a brindare. A un certo punto spuntò l’ingegnere Ferlaino e la sua signora che mi costrinsero a salire in auto per fare il giro della città. Fui travolto dall’affetto dei tifosi, immaginavo che mi volessero bene ma non così tanto. Feci una sudata incredibile e indimenticabile. Però il giorno dopo riportai tutti all’ordine».

Ma come, scrisse la Storia, con la S maiuscola.
«Ma io dissi: “signori, non è ancora finita. Ci aspetta la Coppa Italia”. Penso che in quel momento mi odiarono, ma poi quando alzammo al cielo il trofeo, penso che cambiarono i loro sentimenti».

Vincere al Sud è così complicato?
«Io vinsi da uomo del Nord che portava le regole dell’uomo del Nord che però, nelle viscere, era un uomo del Sud. Ma dovevo cambiare la mentalità di una squadra che un anno lottava per un posto in Coppa Uefa e l’anno dopo per non retrocedere. Compreso nel primo anno di Maradona. Questo Napoli è diverso: il ciclo di De Laurentiis parte da lontano, è un ciclo vincente. Lo è talmente tanto che fa notizia quando arriva al decimo posto. Che ai miei tempi, quando ero calciatore, quasi era la regola. L’unica cosa che contava era battere o il Milan o la Juventus. E io capivo subito se arrivavano loro al San Paolo: perché Sivori e Altafini iniziavano a vedersi in orario già al martedì per allenarsi… poi vincevamo e la settimana dopo le beccavamo a Mantova. Un classico».

Che direbbe a Conte?
«Le sirene ci sono sempre state, anche ai miei tempi. Lui, come me, è stato talmente preso dall’idea di poter vincere che fino alla fine non avrà pensato al futuro. Normale che adesso rifletta. Io rinnovai nel girone di ritorno, ma allora era tutto semplice: il contratto lo trattavi da solo, senza intermediari, avvocati, procuratori. Ora c’è la folla. A dire il vero, a me pure sarebbe piaciuto essere circondato da uno staff di legali. Ma non si usava».

È facile andar via dopo aver vinto?
«La cosa più banale. Io non ci ho mai pensato di andare via anche se sapevo che la parte più proibitiva sarebbe stata il dopo: avevamo davanti agli occhi il crollo del Verona, del Cagliari, della Lazio negli anni precedenti che non erano abituati a vincere ed erano finite tutte male».

Le esitazioni di Conte?
«Umane. Ma quello che conta è che non si rovini il clima di festa, che tutti si godano il momento e che, qualunque sia la fine, ci sia una stretta di mano e un sorriso».

Il progetto Napoli è da sogno, non trova?
«Hanno preso De Bruyne, mi pare. Certo, avesse avuto trent’anni il Manchester City non lo avrebbe fatto andare via. Ma è un investimento importante, in Italia De Laurentiis è ormai uno dei pochi proprietari vecchio stampo, adesso sono tutti stranieri o dei fondi. Per questo è importante che il Napoli continua a essere un faro per il nostro calcio».

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